Avevamo trent’anni, due bambine piccolissime – Chiara non aveva nemmeno due mesi! – e un netto pregiudizio sfavorevole a Cortina. Con l’antisnobismo tipico di molti snob, la giudicavamo, conoscendola poco, un luogo frivolo e mondano, inadatto a veri amanti della montagna. Un luogo senz’anima. Tuttavia sapevamo , attraverso tanti amici, del collegio delle Orsoline dove una giovane famiglia poteva trovare gli spazi adatti ai bambini e a una vacanza distensiva e non troppo costosa, così arrivammo, corredati di passeggini, lettini, biberon, borse, sacche, valigie, scarponi , giocattoli …
Era il 1973. Ci saremmo tornati ininterrottamente , ogni mese d’agosto, fino al 1990. E tornare era ogni volta una festa: ritrovavamo le nostre camere, nella “casetta C”, pronte ad accoglierci con il loro buon odore di legno pulito e le finestre che si aprivano sul frusciare del bosco, ritrovavamo il salottino con le semplici poltrone di legno dove la sera ci riunivamo con gli amici a chiacchierare per ore un pò di tutto e a progettare le gite per il giorno dopo, sapendo perfettamente che di gita si sarebbe finito per farne un’altra e che la mattina dopo ci saremmo rincorsi senza trovarci come in una commedia di Feydeau.
Ritrovavamo i volti sorridenti delle Madri: Felicita, con il suo sguardo ascetico nel volto mite , Felicissima, sempre sollecita per il benessere di tutti e soprattutto dei bambini, che amava veder crescere come se fossero tutti suoi nipotini, di cui conservava le fotografie e seguiva i progressi, scusandone spesso i capricci o i giochi troppo chiassosi … e tutte le altre, ognuna capace a suo modo di rendere il nostro soggiorno qualcosa di più di una banale vacanza in montagna. Ci sentivamo a casa.
A quattro, cinque anni, Chiara, parlando coi conoscenti , dichiarava, suscitando le mie imbarazzate precisazioni: “in agosto noi andiamo a casa nostra a Cortina”. E come non considerarla una casa, anche se molto speciale? La sera, dopo aver fatto il bagno, Marta e Chiara, Francesco e Lavinia Monti, in fila nei loro pigiamini , come gli amici di Peter Pan, seguivano la cameriera in cucina, per “aiutarla” e qualche volta tornavano di corsa scacciati dai rimbrotti bonari della signora Rosa, pronti a ricominciare la sera dopo. Per loro, forse, per tanti anni, il Faloria è stato davvero l’ “isola che non c’è”: un luogo in cui essere bambini era più facile e più bello che altrove. Francesco e Chiara, che erano i più avventurosi, si prendevano per mano e scappavano nel bosco; allontanandosi di cinquanta metri, avevano la esaltante sensazione dell’avventura. Nei pomeriggi di pioggia inventavano mille giochi sul “ponte”, che era un lungo corridoio di legno che collegava tra loro le varie “casette”,dove venivano conservati i bauli delle collegiali.
Crescendo, cominciarono a salire in Cappella, facendo a gara per servire Messa, e mi piace pensare che abbiano conservato , da quegli anni, una familiarità con la fede, che forse non è tutto, ma è pur sempre qualcosa. Con l’aiuto di mia sorella Francesca, i bambini organizzavano recite a cui noi adulti, e le Madri, assistevamo benevolmente, costruivano capanne nel bosco, organizzavano bande rivali. Ai quattro inseparabili si aggiungevano di volta in volta altri figli di amici, alcuni dei quali fanno ancora parte della loro vita. Noi adulti cercavamo di trasmettere loro il gusto del camminare, l’amore della montagna, del silenzio, dei prati, della vita a contatto con la natura. Penso che , malgrado qualche riottosità iniziale, ci siamo riusciti, se tutti loro sono contenti, quando possono, di tornare a Cortina e se conservano di quegli anni un ricordo prezioso.
Facevamo, in gruppi spesso numerosissimi, splendide, faticose, lunghissime gite e sontuosi pic-nic, con i cestini preparati dalla signora Rosa, che brontolava sempre un pò perché li chiedevamo in ritardo, ma poi non ci faceva mancare la cotoletta panata, l’uovo sodo e la vaschetta di Nutella. Insegnavamo ai bambini a riconoscere i frutti del bosco e a raccoglierli con parsimonia, a rispettare i fiori, a tacere in attesa di scorgere uno scoiattolo, una marmotta, un cerbiattino in lontananza. Al ritorno, nella piccola cucina della “casetta” ci preparavamo il te.
Si organizzavano tornei di bocce e di briscola e combattutissime partite di pallone che si svolgevano sul piazzale , sotto gli sguardi un po’ perplessi delle Madri e delle persone più anziane.
Gli anni sono passati e ognuno ha preso la sua strada, ma se tra molti di noi è rimasta un’amicizia solida e vera, forse è anche merito del Faloria . Tornandoci quest’estate, malgrado i tantissimi cambiamenti, di nuovo ho avuto l’impressione straordinaria di essere a casa. Tante persone care non ci sono più , non ci sono più le “casette”, è scomparso l’odore del legno, ma il Faloria continua ad essere immerso nei boschi e la Cappella continua ad aprirsi sul Cristallo , sul Pomagagnon e sul cielo. E’ rimasta l’anima, l’anima che più di trent’anni fa pensavamo che Cortina non avesse e che ci ha conquistato per sempre.